SHOAH - Racconto breve
Da dieci
giorni i due ragazzi, fratello e sorella, erano nascosti nell'angusto
sottotetto della loro casa. Il quartiere, nel frattempo, era stato sfollato e i
soldati avevano perquisito casa per casa, deportando tutti, uomini, donne e
bambini. I loro genitori avevano appena fatto in tempo a nasconderli nel
sottotetto con le provviste di cui disponevano, riempiendoli di raccomandazioni
per affrontare la difficile prova che li attendeva.
Il
papà, prima di consegnarsi ai soldati, li aveva rassicurati con parole di speranza
ma solo per tenerli buoni. Aveva gli occhi lucidi, la barba lunga di parecchi
giorni, lo sguardo serio, come può esserlo quello di un padre convinto di non
rivedere mai più i propri figli.
Lui e
la mamma, per evitare la perquisizione della casa, si sarebbero consegnati ai
militari, mentre loro dovevano restare nascosti per tutto il tempo necessario.
Solo quando fossero stati sicuri di potere uscire, senza rischiare di essere catturati
e deportati nei campi, dovevano fuggire e tentare di raggiungere alcuni parenti che vivevano in un
altro villaggio.
Da quel
giorno i due ragazzi non avevano mai
lasciato il sottotetto, la loro nuova casa. L’odore degli escrementi, richiusi
in una grossa latta chiusa da un coperchio di plastica, saturava il piccolo
ambiente, ma il padre era stato categorico a riguardo: per nessun motivo,
neanche per espletare i bisogni corporali e lavarsi, dovevano lasciare il nascondiglio,
altrimenti il suo sacrificio e quello della mamma sarebbero stati inutili.
Non
era passata notte senza che i rumori dei mezzi militari li avessero tenuti
svegli e all’erta, col terrore di vedere spuntare l’elmetto di un soldato dalla
piccola botola che costituiva l’unico ingresso del nascondiglio. A volte i
soldati erano così vicini da poterne sentire le voci e comprendere i loro
discorsi. Spesso, al buio, si sentivano colpi di arma da fuoco, grida e lamenti.
I momenti peggiori arrivavano quando i rumori
finivano e tornava a regnare un cupo silenzio ma saturo ancora degli echi delle
grida di quelli che non ce l’avevano fatta. Era quasi un sollievo al sorgere
del sole, ascoltare il frastuono, ormai familiare, del quartiere militarizzato.
Nel trambusto rassicurante del mattino i ragazzi riuscivano dormire per qualche
ora. Il fratello più grande teneva tra le braccia la sorellina di cinque anni,
stringendola da dietro, distesi sulle assi di legno di quello che una volta era
stato il soffitto del soggiorno. In quel modo riusciva a rassicurarla e allo
stesso tempo a riscaldarla. La bambina piangeva spesso ed era stato duro in
quei giorni abituarla a farlo in silenzio, obbligandola a trattenere i
singhiozzi e permettendo solo alle lacrime, silenziose, di scivolare e bagnarle
le guance e il collo. Il ragazzo le asciugava con il bavero della giacca lurida,
ansioso di piangere a sua volta, in silenzio, non appena la bimba si fosse
addormentata. La mattina del decimo giorno, furono svegliati dai rumori insoliti
provenienti dall'appartamento, proprio sotto i loro piedi. Alcuni militari
erano entrati in casa e stavano spostando mobili e suppellettili. Il ragazzo
capiva abbastanza la loro lingua per comprendere che la casa era stata scelta
come dormitorio per alcuni ufficiali. Da quel momento in poi il silenzio e la
cautela dovevano essere ancora maggiori. Prese tra le mani il viso della
sorellina per sussurrarle all'orecchio come si sarebbe dovuta comportare. La
bimba fece di sì col capo mentre le lacrime ricominciarono a scendere
silenziose, bagnando le mani del fratello che non osava lasciarla.
Quella
sera quattro uomini presero dimora nel loro appartamento e trascorsero la
serata mangiando carne in scatola e fumando una sigaretta dopo l’altra. Il
ragazzo, dal suo nascondiglio, li sentiva parlare, attento a non togliere mai le
mani dalla bocca della sorella;
-
Quanti ne abbiamo
beccati oggi Maggiore?
-
Non so, mi pare
sei in tutto, in due appartamenti, pochi isolati più avanti. Tre li abbiamo
trovati noi, se ne stavano rintanati in un buco sotto il pavimento della camera
da letto.
-
Come avete fatto
a trovarli?
-
La puzza,
pivello! Dopo tanti giorni chiusi in quel buco, la puzza di merda si sentiva a
miglia di distanza. E’ bastato seguirla ed eccoli li, mamma, papà e
figlioletta.
-
Immagino la
faccia che hanno fatto!
-
Sembravano topi
in gabbia. Il padre si è buttato avanti per impedirci di prendere le donne ma
non si reggeva neanche in piedi. Si è preso il calcio di un mitra sul muso ed è
svenuto subito. Ci è toccato trascinarlo di peso fino al camion; non hai idea
di come puzzava!
-
E le donne?
-
La bimba era piccola
e la madre inguardabile. Facevano pena, non hanno mai smesso di piangere. Le
abbiamo caricate sul camion e stop.
Il
ragazzo continuava ad annusare l’aria cercando di capire se la puzza del loro
nascondiglio potesse arrivare fino ai nasi dei soldati, poco più in basso. Non
immaginava che l’odore tendeva a salire e a infiltrarsi tra le assi del tetto e
quindi difficilmente sarebbe arrivato nella stanza di sotto. Il padre aveva
scelto il nascondiglio con cura. Aveva preferito il sottotetto al vano sotto il
pavimento del soggiorno, pur essendo in quest’ultimo gli spazi decisamente più
ampi. Il padre era un ingegnere e sapeva il fatto suo, anche se, da quando era
iniziata l’occupazione, non gli avevano più consentito di esercitare la professione
e si era dovuto adattare a svolgere lavori manuali e sottopagati.
I
soldati sdraiati sui letti, che una volta erano stati i loro, continuavano a
parlare e a fumare;
-
Maggiore, secondo
lei perché questi bastardi non si convincono a farsi deportare in buon ordine?
-
Credono che
questa sia la loro terra, non accettano di perdere i loro privilegi, di essere
cacciati e deportati altrove.
-
In effetti loro qui
ci sono nati!
-
Non dire idiozie.
La nostra sicurezza dipende dal consolidamento dei confini. Dobbiamo costruirci
il nostro “spazio vitale”.
-
Certo Maggiore,
ma al loro posto anche noi avremmo combattuto.
-
Tu non capisci
Tenente? Noi siamo la razza superiore, una razza pura e non possiamo mescolarci
con questa feccia di pezzenti, sottosviluppati e malaticci; nessuno ha diritto
di ostacolarci.
-
Io, comunque, al
posto loro, non lo capirei!
-
E’ per questo che
esistono i campi, imbecille. Li rinchiudiamo lì, ognuno con i propri simili.
Noi ci prendiamo la terra e le case e loro, ben chiusi, avranno modo di
riflettere sul futuro che li aspetta.
-
Però un po’ mi
dispiace per quei poverini; in fondo non hanno fatto niente di male e nei campi
non se la passeranno tanto bene.
-
Tu non capisci
nulla tenentino sentimentale dei miei stivali. Ci stiamo solo prendendo la
rivincita dopo anni di oppressione e sofferenze. Dobbiamo liberarci di tutti quelli che
occupano abusivamente il nostro territorio e allo stesso tempo dobbiamo
espanderci. Solo così potremo proteggere i nostri confini e il nostro popolo. I
campi servono solo per evitare che si disperdano, li rinchiudiamo e ce li
teniamo fintanto che consolidiamo il nuovo ordine nei territori occupati, non
gli succederà nulla di male, stai tranquillo.
Nel
silenzio della notte, dopo che i soldati si furono addormentati il ragazzo,
sempre tenendo stretta a sé la sorellina, cerco di rilassarsi e chiuse gli
occhi. Sentiva il bisogno di svuotare la vescica ma non osava muoversi. Avrebbe
aspettato che i soldati fossero usciti, la mattina dopo. Chiuse gli occhi e
magicamente il sonno lo accolse tra sue braccia, inaspettato. Dormì a lungo, un
sonno privo di sogni, vuoto e finalmente ristoratore. Fu svegliato dai rumori
provenienti dalla stanza di sotto. Un soldato aveva svegliato gli ufficiali recando
ordini. Il Maggiore lesse il dispaccio e annunciò con voce marziale di
abbandonare il villaggio, le operazioni di rastrellamento erano terminate e si
tornava alla base. Un evviva accompagnò le sue parole. Gli uomini raccolsero le
loro cose e si precipitarono fuori. Tutta la mattina fu contrassegnata dal
rumore dei camion militari carichi di soldati in partenza. Il ragazzo approfittò
del rumore per svuotarsi e così fece anche la sorellina. Le fece mangiare
alcuni biscotti, il fondo della loro scorta alimentare, e un sorso d’acqua. La
bambina aveva la fronte che scottava e gli occhi lucidi ma lui non poteva fare
altro che tenerla stretta e cercare di riscaldarla.
Stettero abbracciati fino a sera. Il silenzio, quella notte, non fu interrotto
da alcun rumore. Partiti i soldati il villaggio era popolato solo dal ricordo
degli abitanti che non c’erano più. Quando la sorella si fu addormentata decise
che era arrivato il momento per uscire. Aveva bisogno di viveri e di medicine.
Nel comò dei genitori trovò alcune pasticche per abbassare la febbre e per la
prima volta, dopo tanti giorni, un sorriso comparve fugace sulle sue labbra. I
soldati avevano dimenticato alcune razioni di cibo, biscotti e scatolette. Le
prese e le mise in un sacco, poi decise di scendere in strada. Aprì lentamente
la porta e si guardò intorno per essere certo che nessuno degli occupanti si
fosse nascosto per cercare di catturarli con un subdolo stratagemma. Quando si
sentì sicuro si incamminò rasentando i muri e tentando di arrivare alla piazza
del villaggio.
Il
silenzio era interrotto solo dal rumore del vento che spostava stracci e fogli
sparsi nel mezzo della strada.
-
Non ti muovere o
ti taglio la gola!
Il
ragazzo si bloccò cercando di rimanere immobile ma le tempie gli pulsavano e il
cuore batteva così forte da scuotergli il petto e le spalle. Il pensiero corse
alla sorellina, sola e malata, nascosta nel sottotetto. Cosa ne sarebbe stato
di lei adesso che lui era perduto?
-
Girati e alza le
mani!
Si
girò lentamente tenendo gli occhi bassi e le mani alzate. Le lacrime gli
rigavano le guance e sentì che le forze lo stavano abbandonando. Alzò lo
sguardo verso quello che, era sicuro, sarebbe stato il suo carnefice, ma vide
solo un ragazzo come lui, dai capelli neri e i vestiti laceri e sporchi. In
mano aveva un vecchio coltello da cucina. Le guance erano smunte e gli occhi
lucidi, lo sguardo spaventato quanto il suo.
-
Chi sei tu?
- Io mi chiamo Omar,
sono figlio di Mohammed Al-qaseer, sono palestinese!
Il racconto finisce qui? Spero di no....
RispondiEliminaInvece si, perché l'intento e quello di far riflettere il lettore facendogli credere di stare leggendo il racconto delle vicende atroci vissute dagli ebrei nel corso del secondo conflitto mondiale e scoprendo invece che la storia si svolge oggi in Palestina e i carnefici sono gli eredi delle vittime di allora.
RispondiEliminaEd è l'effetto che ha ottenuto con me... complimenti.
Eliminahttp://orizzonte48.blogspot.it/2014/05/intelligenze-fragili-fragili-argomenti.html
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